Bellunopop – volontariato giornalistico Terre alte I sereni aguzzini dei partigiani

I sereni aguzzini dei partigiani




[pubblicato sul quotidiano l’Adige di Trento il 31 agosto 2010]

Mario Pasi moriva in un freddo pomeriggio di marzo sulle colline sopra Belluno. Dall’alto dei monti che cingono a nord la città dolomitica, i suoi compagni partigiani potevano osservare i corpi penzolanti del comandante Alberto Montagna – il nome di battaglia di Pasi – e di altri nove giovani. Era una delle innumerevoli rappresaglie naziste, in una provincia che viveva una resistenza particolarmente attiva e radicata. Quello stesso 10 marzo 1945, mentre al Bosco delle castagne impiccavano Pasi e compagni, sul versante opposto della Valbelluna, a sud della città, venivano massacrati sulle colline altri otto partigiani fra i quali i quattro fratelli Schiocchet.

A 65 anni di distanza dall’orrore, la storiografia ci è debitrice di parecchie pagine legate alla vicenda di questo medico ravennate (classe 1913) che, laureatosi in medicina a Bologna nel 1936, venne a lavorare all’ospedale «Santa Chiara» e che in città fu l’anima del partito comunista.
Richiamato al fronte nel maggio 1940, fu congedato per malattia alla fine dell’anno dopo: fece rientro a Trento, riprese il lavoro in ospedale e l’attività sovversiva nella città ormai in mano ai nazisti; ma fu costretto di lì a poco alla clandestinità. Date le difficoltà a organizzare un’efficace resistenza locale, decise con altri compagni di aggregarsi ai combattenti nel Bellunese. Qui assunse vari incarichi di primo piano fra i partigiani appartenenti alla divisione garibaldina Nannetti (partecipò fra l’altro al famoso attacco alle carceri con la liberazione di tutti i prigionieri politici), fino a diventare commissario del Comando unico di zona del Cln.

Una figura, quella di Pasi, che suggerisce tuttora una miriade di sentieri di studio nel tempo andato eppure così presente. Ma mentre in Trentino si investono fiumi di energie economiche e culturali per celebrare in salsa tardonostalgica il condottiero anti-illuminista tirolese Andreas Hofer, l’intellettualità istituzionale trentina non ci aiuta gran che a decifrare il contesto della parabola di Pasi dalla quale, allargando il raggio d’analisi, si potrebbero trarre preziose sorgenti di riflessione anche in fatto di colpe collettive, responsabilità individuali e cammino civile.
Eppure a morire per l’antifascismo non fu Andreas Hofer del quale fra l’altro la sponsorizzatissima agiografia delle lotte antinapoleoniche omette le sanguinose scorribande schützen nell’agosto 1809 contro le popolazioni del vicino Cadore (per non dire del suo governo reazionario, maschilista e liberticida che a Innsbruck ricacciò nel fango ebrei e protestanti).
A mettere in gioco la vita fu Mario Pasi, dedicandola a una lotta democratica nella quale affonda le radici la Repubblica italiana, madre anche dell’autonomia speciale del Trentino Alto-Adige.
Solo pochi anni prima della Costituente, le due province assieme a Belluno furono annessa al Terzo Reich, dopo l’8 settembre ?43. Nel capoluogo sudtirolese l’arrivo dei tedeschi fu largamente vissuto con sentimento quasi liberatorio e a Trento le autorità cercarono quanto meno il quieto vivere con gli occupanti nazisti: si veda in proposito l’interessante documentazione menzionata da Giuseppe Sittoni in «Uomini e fatti del Gherlenda. La Resistenza nella Valsugana orientale e nel Bellunese» (edizioni Croxarie e Mosaico, Strigno, 2005) circa l’attività del commissario prefetto de Bertolini e le intese con i tedeschi, un’altra pagina meritevole di uno sforzo storiografico che ci assicuri un guado oltre le amnesie e il pressapochismo di convenienza.

Nel Bellunese era invece diffuso (fin dalla Grande Guerra e prima ancora) un atteggiamento di ostilità nei riguardi degli austro-tedeschi e dei loro fiancheggiatori, tanto che qui – diversamente da Trento e Bolzano – fallì miseramente il tentativo di formare un corpo locale di polizia nazista: la chiamata alle armi fu boicottata in varie forme dagli autoctoni e molti giovani raggiunsero invece i partigiani, rapidamente organizzatisi in montagna anche grazie all’arrivo di molti ex militari che scelsero l’antifascismo trovando sostegno materiale fra la popolazione civile. Con quei partigiani fu per diversi mesi anche un disertore della Luftwaffe: il pusterese Ludwig Karl Ratschiller, «Ludi», che si unì alla resistenza in Cadore, terra bellunese confinante con Sudtirolo e Austria, dove riconobbe fra chi lo braccava in divisa nazista anche suoi ex compagni di scuola.

Nel novembre 1944 fu arrestato e rinchiuso a Belluno, in una cella vicina a quella di Pasi. Nel suo diario «Il compagno Ludi» (Quaderni della memoria, Anpi Bolzano, 2005) ricorda: «Con raccapriccio ho dovuto sentire per interminabili ore i suoi lamenti per le lesioni inflittegli. Passando in fretta davanti alla sua cella quando i militari di guardia (tutti anzianotti) ci permettevano di andare ai lavabi, dovetti ogni qualvolta portarmi la mano al naso per non sentire l’odore di putrefatto che proveniva dalla sua cella. Voltando lo sguardo furtivamente verso le sbarre della sua cella, potevo intravedere un coso raggomitolato sul tavolaccio che emetteva rantoli continui». Pasi era stato catturato dalle Ss la notte del 10 dicembre e affidato alla Gestapo che lo interrogò torturandolo per quattro mesi. Inutilmente. Montagna non parlò e fu impiccato moribondo e con le gambe in cancrena.

Il diario di «Ludi» ci aiuta a ricordare chi furono gli aguzzini di Pasi: il regista del terrore era il tenente Georg Karl, e fra i suoi più solerti e crudeli assistenti c’erano sudtirolesi come Karl Tribus, Karl Lanznaster. Così come altoatesini erano probabilmente la gran parte dei soldati che scortarono Pasi e gli altri al Bosco delle castagne per impiccarli.
In provincia di Belluno, infatti, dall’aprile 1944, il nucleo delle forze occupanti era composto dal secondo battaglione dell’Ss Polizei Regiment «Bozen» comandato dal maggiore Otto Schröder (fu lui a esigere dalla Gestapo i prigionieri da giustiziare, per vendicare un’imboscata subita dai suoi militari).
Pare escluso, invece, che quel giorno avessero assistito anche membri del Corpo di sicurezza trentino (Cst) che era stato presente nella zona e fu chiamato accanto ai nazisti anche in varie operazioni antipartigiane e rappresaglie sulla popolazione. Nel Bellunese, fra l’altro, furono incendiati interi paesi «rei» di aiutare i «ribelli» e alla fine, il contributo di sangue di questa terra alla Liberazione fu notevole: un migliaio i morti, circa trecento i feriti, 1600 deportati e 7000 internati.

Risalire alle responsabilità individuali, specie per le figure «minori», non è agevole, anche perché i tedeschi in ritirata fecero sparire i documenti militari. Nel caso dei torturatori di Pasi, un nome rispunta nell’ottima indagine svolta dallo storico Gerald Steinacher e riportata nel suo volume «La via segreta dei nazisti. Come l’Italia e il Vaticano salvarono i criminali di guerra» (Rizzoli, 2010, 431 pagine, 24 euro).
Si tratta di Karl Tribus, nato a Lana nel 1914, che finita la guerra scappò «con l’aiuto di un francescano bolzanino seguendo la ben nota rotta argentina» dopo un periodo di clandestinità in Alto Adige (il sereno soggiorno dolomitico prima della fuga accomunò anche figure ben più note, come Eichmann, Priebke e Mengele). Nel 1957, si spacciò per defunto con un telegramma inviato da Buenos Aires al Comune di Lana.
Il suo fascicolo era tra quelli trovati quindici anni fa nell’«armadio della vergogna» e fu avviato un procedimento penale; ma l’imputato, a quanto pare, stavolta è morto davvero. Del maresciallo Pallua, invece, ci narra Ratschiller: morì nel 1972 a Brunico, dove probabilmente lo ricordano come un brav’uomo. Quanto al sadico regista delle torture su Pasi e gli altri prigionieri, il tenente Karl, pare si sia volatilizzato subito dopo la guerra. «Non siamo riusciti a saperne più nulla; a parte la notizia, quasi certamente falsa, della sua morte, diffusasi nel primo dopoguerra», spiega Ferruccio Vendramini dell’Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’età contemporanea.

Da Bolzano, invece, il presidente dell’Anpi, Lionello Bertoldi, ricorda che l’aguzzino fu segnalato in Alto Adige ma poi risultò irrintracciabile, il che fa desumere un’altra fuga verso l’esilio dorato in Sud America o in Spagna passando dall’affollatissimo crocevia bolzanino. Dovunque sia finito, di Georg Karl si è sempre ritenuto che fosse a sua volta altoatesino (anche Mario Tobino in una poesia dedicata a Pasi lo evoca così). In realtà, stando ai primi risultati di un’indagine che sta svolgendo Gerald Steinacher (docente all’Università di Innsbruck e attualmente ricercatore ad Harvard), si può ipotizzare che il comandante della Gestapo a Belluno fosse nato nel 1906 a Norimberga. Ora lo storico tirolese confronterà i dati dell’archivio Wast di Berlino con il fascicolo Ss su Georg Karl che ha già esaminato al National Archives di Washington. Poi, forse, sapremo qualcosa di più di un torturatore rimasto probabilente impunito.

Di un’altro capo nazista operante nell’Alpenvorland ci dà indicazioni precise il libro di Steinacher: si tratta dell’ufficiale Ss meranese Willy Niedermayr, che si ritiene sia tuttora in vita in Cile. Condannato in contumacia e ricercato, partecipò al rastrellamento degli ebrei a Merano nel ’43 e poi fu il sanguinario seviziatore e assassino del comando Ss di Feltre. Poi compare il maggiore Alois Schintlholzer, originario di Innsbruck e arrestato dai carabinieri a Prato allo Stelvio nel 1947: aveva preso parte a innumerevoli rappresaglie contro i partigiani e i civili, ma non scontò mai la condanna italiana all’ergastolo.

Dopo la precoce evasione, invecchiò pacificamente a Innsbruck. Il nome di Schintlholzer è legato anche ai tragici fatti dell’Agordino e in particolare all’incendio dei paesi bellunesi di Caviola, Fregona e Feder e alle violenze deliberate che causarono almeno quaranta morti e un numero imprecisato di feriti. Nelle truppe che scesero dal San Pellegrino e dal Valles verso la conca di Falcade per metterla a ferro e fuoco c’erano anche i trentini, come ricorda Attilio Fronza nel suo interessante diario «La polizia trentina ai confini del Reich» (Egon, 2008, 142 pagine, 15 euro) in cui racconta che ai militi del Cst – come lui – era affidato il compito di formare un cordone al limitare dei boschi per impedire la fuga dai paesi dove si scatenava la violenza delle Ss e della Wehrmacht.

La sua testimonianza evoca anche i roghi e le uccisioni: «Il fuoco divenne immenso e l’intero paese [Caviola, ndr] presto fu in fiamme. Mi spostarono lungo la strada che portava da Caviola a Falcade in direzione del torrente Biois, ad una certa distanza da dove avevano concentrato un numeroso gruppo di civili (escludo la presenza di donne e bambini) e partigiani, catturati nelle ore precedenti. Piazzarono le mitragliatrici: fu una carneficina, venti o trenta persone se non di più giacevano inermi sul terreno. (…) Mi sentivo impotente davanti a tanta violenza e brutalità; le immagini di quel giorno mi rimarranno per sempre nella mente».

Furono numerose le operazioni e le rappresaglie naziste cui partecipò fuori provincia (oltre a Belluno, Brescia, Vicenza e Verona) il Corpo di sicurezza trentino. Fra queste anche il grande rastrellamento nell’area del monte Grappa nel settembre 1944. Circostanze in cui, accanto ai tedeschi, spesso si distinguevano per il sadismo le brigate nere repubblichine (anche la gran parte dei criminali fascisti italiani trovo la via di fuga se non l’amnistia). Per tornare all’Agordino, di quei tragici fatti e anche del ruolo di trentini e altoatesini parla con rabbia l’antifascista cattolico Pietro Follador (1882-1963) nel suo diario scritto «in tempo reale» e pubblicato postumo solo qualche anno fa nel bollettino parrocchiale di Falcade (ora è reperibile online).

A parte le dure accuse per il collaborazionismo con i nazisti, il diario insiste spesso sui problemi di approvvigionamento alimentare, perché i tedeschi «si vendicano» sui bellunesi anche «riducendoli alla fame» mentre «nelle vicine province di Trento e di Bolzano i generi tesserati arrivano quasi regolarmente tanto da poterne fare mercato nero».

Quelle dei due diari di Follador e Fronza sono pagine dense di dolore, voci di due mondi così vicini eppure drammaticamente separati dalla guerra. Pagine che ci invitano a riportare in primo piano la riflessione storica su quello snodo epocale e sulla sua proiezione nell’oggi, davanti all’assedio revisionista e riduzionista, razzista e conformista, spesso fiancheggiato da un silenzio complice.

Nel caso del Trentino, un’opportunità di emancipazione collettiva è data dall’approfondimento di vicende come quella di Mario Pasi e del suo contesto, utili a specchiarsi nel passato fuori dalla ritualità e dalla retorica che ammantano in misura pericolosamente crescente l’esercizio storico istituzionale…

Zenone Sovilla


Criminali nazisti impuniti: il caso Niedermayer

[pubblicato in traduzione tedesca a cura di Gerald Steinacher sul quotidiano Dolomiten di Bolzano]

Zenone Sovilla

 Nelle settimane scorse abbiamo narrato le tragiche vicende vissute dalle popolazioni bellunesi durante l’occupazione nazista nel periodo 1943-1945, quando la vicina provincia dolomitica fu annessa con Bolzano e Trento al Terzo Reich con l’istituzione dell’entità amministrativa voluta da Hitler e denominata Alpenvorland.

Una delle figure più feroci della repressione della resistenza fu il comandante della gendarmeria di Belluno, responsabile di torture e omicidi durante gli interrogatori: il tenente Georg Karl, che a quanto pare era di Knellendorf (Bayern), mentre i suoi principali assistenti provenivano dal Sudtirolo. La scena dell’orrore era la caserma Tasso, nel centro della città. Dopo la guerra i personaggi più compromessi sono svaniti (molti fuggiti in Sudamerica) e in ogni caso nessuno di loro ha mai pagato per quei crimini di guerra.
Nella seconda città della provincia, Feltre, uno dei principali registi del terrore fu il maresciallo della Gestapo Wilhelm “Willy” Niedermayer, nato ad Appiano/Eppan nel 1913, che era già stato tristemente conosciuto a Merano durante le deportazioni degli ebrei nel settembre 1943.
Trasferitosi nel Bellunese, Niedermayer fu un altro solerte interprete dei metodi barbari adottati nella repressione della crescente resistenza popolare contro l’occupazione: sul suo ruolo di carnefice esiste una notevole memorialistica. Fra gli omicidi che gli furono imputati, figurava anche quello del noto partigiano Giorgio Gherlenda, un ex militare che si era aggregato alla resistenza dopo un avventuroso rientro in Italia dal fronte russo. Gherlenda, nome partigiano “Piuma”, fu arrestato con altri due compagni mentre rientrava da un’azione nella valle del Primiero, dove i partigiani volevano liberare la moglie di un generale tedesco aderente alla congiura per il fallito attentato del 20 luglio 1944 contro Hitler. Nelle celle della caserma Zannettelli di Feltre, Niedermayer interrogò sotto tortura Gherlenda e gli altri due, Alvaro Bari “Cristallo” e Gastone Velo “Nazzari”. Quest’ultimo riuscì incredibilmente a fuggire nottetempo dalla prigione di Feltre ma non ebbe modo di liberare i compagni. Lui stesso fu fucilato un paio di mesi più tardi a Castel Tesino (Trento) dove venne catturato l’8 ottobre 1944 durante un rastrellamento da miliziani nazisti locali del Corpo di sicurezza trentino (Cst), mentre cercava riparo con la nota partigiana Clorinda Menguzzato “Veglia” (violentata, torturata e uccisa il 10 ottobre 1944).

Bari e Gherlenda furono fucilati dagli uomini di Willy sul ponte di Cesana (Lentiai, Belluno) il 5 agosto 1944: le due salme furono gettate nel Piave e vennero recuperate il giorno dopo da persone del luogo e consegnate pietosamente ai famigliari.
In una testimonianza ufficiale rilasciata subito dopo la guerra, la madre di “Nazzari” ricorda: “Il 4 agosto 1944 alle tre di notte, il maresciallo Willy Niedermayer, detto Tigre, con una pattuglia di tedeschi armati sino ai denti, sfondarono la porta di casa per cercare mio figlio, ora defunto, Velo Gastone, il quale era fuggito alle due di notte dalla caserma ove era prigioniero; là fu percosso, torturato, gli furono strappati i capelli brutalmente lacerandogli il cuoio capelluto. La sera del 4 agosto, ci sorpresero ancora in camicia, minacciarono di portarci a Bolzano se non avessero trovato mio figlio. Ci derubarono di tutti i suoi vestiti… Dopo due mesi mio figlio fu preso, torturato e ucciso, a scarica di mitraglia, in Castello Tesino. La sua morte è tomba per noi poveri genitori”.

Questo è soltanto un esempio della storia di Willy Niedermayer, una figura tragicamente ricordata da molti altri testimoni.
Fra questi, Gino Meneghel, direttore dell’ospedale neuropsichiatrico di Feltre, che fu arrestato in questa città il 3 ottobre 1944, torturato da “Tigre”, e infine deportato il 2 febbraio 1945 nel lager di Bolzano dal quale uscì il 1° maggio.
Meneghel ricorda Willy anche nel suo libro “Armati e disarmati nella Resistenza per la Libertà” (ed. Nuovi Sentieri, Belluno, 1975), a tratti con sottile ironia: “Si è tanto poi parlato di queste scosse elettriche. Con il più innocente dei sorrisi Willy Niedermayer mi domandò durante un suo garbatissimo interrogatorio, bonariamente curioso, se fossero proprio così infernali e se davvero potessero danneggiare i centri nervosi. Non risposi e non insistette, forse perché incontrò un lampo di follia nei miei occhi, forse perché mi vide ancora tremare. Adesso potrebbero fargliele provare, le sue amicissime scosse…”.
Il nome di Niedermayer è associato anche a un altro degli episodi più drammatici, avvenuto sulla scia del grande rastrellamento sul monte Grappa e sulle cime contigue, tra Feltre e il Bassanese (Vicenza), quando le truppe naziste e i repubblichini fascisti uccisero oltre quattrocento resistenti e ne deportarono circa cinquecento, tra il 20 e il 28 settembre 1944.
Willy faceva parte del Kommando diretto dal tenente Ss Herbert Andorfer (austriaco di Linz) che dopo aver guidato l’azione antipartigiana (denominata “Operation Piave”), il 26 settembre 1944 impiccò sugli alberi del viale centrale di Bassano 31 giovani del luogo che avevano ingenuamente accolto l’appello/trappola a consegnarsi ai nazisti con la garanzia di aver salva la vita.
Dopo la guerra, Andorfer trovò rifugio in Svizzera e da qui, sotto il falso nome di Hans Mayer fuggì in Venezuela. Alcuni anni dopo fece ritorno in Austria, dove visse (lavorando in un hotel) sotto falsa identità fino alla morte, nel 2008. Nel frattempo, un tribunale di Dortmund aveva emesso a carico di Andorfer una (un po’ mite…) condanna a trenta mesi di detenzione che peraltro non riguardava i crimini commessi nel Feltrino e a Bassano, ma l’uccisione di seimila ebrei dentro il campo di concentramento nazista che comandava nel 1942-1943 a Sajmište (presso Belgrado, Serbia).
Anche l’organizzatore materiale delle azioni sul Grappa e dintorni (comprese le violente rappresaglie sui civili di molti paesini) è un altro criminale nazista rimasto impunito: l’Ss Karl Franz Tausch, soprannominato “il boia di Bassano”, nato nel 1922 a Olmütz, appartenente al gruppo etnico tedesco della zona dei Sudeti, in Moravia, occupata da Hitler nel 1939.
Nel 1947 fu condannato a vent’anni dal tribunale di Brno (Cecoslovacchia) ma limitatamente al reato di collaborazionismo con i nazisti, per i crimini commessi in varie regioni d’Italia, nulla. Fece sette anni di prigione e poi, attorno al 1955 si trasferì in Germania, dove visse felicemente fino al 2008, quando fu scoperto da giornalisti italiani a Langen, non lontano da Francoforte. L’evento lo colse impreparato a questo confronto con la storia e dopo un paio di mesi si suicidò, lasciando scritto di sentirsi perseguitato dai mass media e dalla giustizia (che in realtà solo allora si stava rimettendo in moto nei suoi riguardi, alla Procura di Verona).

Per il massacro di Bassano furono invece processati e duramente condannati vari fascisti italiani, che però scontarono ben poco: li salvò l’amnistia.
Per tornare all’amico sudtirolese di Andorfer e Tausch, il maresciallo Willy Niedermayer, anche la sua vicenda processuale è esemplare di come non si fece giustizia dopo la guerra. Lo status dell’imputato di optante per il Terzo Reich rese il quadro ancora più complesso, facendo cadere fra l’altro l’accusa di collaborazionismo. Per anni il suo fascicolo fu oggetto di contesa fra il Tribunale civile (di Belluno) e quello militare (di Padova), tanto che dovette intervenire una sentenza della Corte costituzionale del 9 luglio 1959 per “costringere” la corte marziale ad assumersi la competenza piena e a procedere.
La sentenza definitiva è datata 12 novembre 1963: l’imputato fu condannato alla pena dell’ergastolo per gli omicidi di partigiani nel Bellunese nel periodo tra l’agosto 1944 e l’aprile 1945.
Ma fu una sentenza nel vuoto: di Willy ormai non c’erano più tracce da molti anni, da quando, nell’immediato dopoguerra, riuscì (o più ragionevolmente fu aiutato) a evadere da un campo di detenzione per prigionieri nazisti a Rimini.
L’ipotesi più accreditata è che si sia rifugiato in Cile per passare molti decenni in serenità: pare sia morto solo pochi anni fa.

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